Progetto giornalistico “A tu per tu con gli eroi di tutti i giorni”: intervista all’ex hikikomori Simone Platania, a cura di Anastasia Morale e Alessandra Pandolfini, studentesse del II anno della Scuola biennale di Scrittura e Storytelling di Viagrande Studios.
In un momento storico in cui le relazioni interpersonali sembrano sempre più dipendere dalla tecnologia; in cui la vita sociale è apparentemente più facile quando in realtà è sempre più complessa; in cui la semplicità dei rapporti viene spesso a mancare ai più giovani, noi studenti del II anno della Scuola biennale di Scrittura e Storytelling di Viagrande Studios abbiamo sentito il desiderio e la curiosità di intervistare su questi temi un ragazzo che ha vissuto l’esperienza di hikikomori, fenomeno di “isolamento sociale” nato in Giappone che negli anni si è diffuso in tutto il mondo digitalizzato, anche in Italia. Lui si chiama Simone Platania, oggi ha 23 anni, e ha accettato il nostro invito per poter essere d’aiuto a coloro che non conoscono ancora o conoscono poco ciò che si cela dietro la parola “hikikomori”.
Simone, tu che hai vissuto in prima persona questa esperienza, puoi aiutarci a definire l’«essere hikikomori»?
«Nel mio caso essere un hikikomori è stato come voler rifiutare ogni input esterno, chiudermi a ciò che mi faceva paura, ossia a qualsiasi realtà. Solo dopo ho scoperto che esiste un nome per tutto ciò, e che è considerata una “sindrome”».
Secondo studi psicologici e sociologici, uno dei motivi principali della nascita del fenomeno“hikikomori” in Giappone è che in questo Paese la divisione tra sentimenti autentici e sentimenti di facciata sia ancora più grande rispetto ad altri Paesi, portando i giovani a una repressione così intensa da sfociare nella depressione. Si dice infatti che i giapponesi abbiano proprio un “doppio registro psichico”. Secondo te succede lo stesso anche agli hikikomori italiani o entrano in gioco altre cause? Le motivazioni che ci sono dietro la scelta dell’isolamento sono di natura personale o sociale?
«Credo siano entrambe le cose, poi a seconda del singolo caso una può essere più presente dell’altra. Per me, nel contesto familiare e di amici di cui facevo parte, ammettere di stare male suonava quasi come una “presa in giro”, soprattutto se a dirlo era un maschio di 14 anni quale ero io all’epoca. Nel mio caso hanno influito non solo le persone nella mia vita, ma anche gli episodi di bullismo di cui sono stato vittima, spingendomi a una chiusura totale. Sono stato bullizzato sia alle elementari che alle medie: in un primo momento credevo che il problema fossero gli altri, la sfrontatezza e presunzione di quei ragazzini; poi crescendo ho cominciato a pensare che il problema fossi io, perché se la cosa continuava da così tanto tempo allora avevo io qualcosa che non andava.
Ero io che non riuscivo a stare bene con gli altri. La scuola doveva rappresentare il luogo dello studio, invece paradossalmente chi si impegnava veniva preso di mira mentre i leader erano coloro che facevano a gara per avere il telefono migliore. Essere esclusi dalla squadra sportiva, dagli inviti ai compleanni, sembrano cose da nulla invece sono spari al cuore. Credo che la scuola sia una società in piccolo, perché nel suo microcosmo racchiude e riflette quello che accade nel mondo, ma succede che essendo piccoli e immaturi la sicurezza di sé si cerca spesso nello scavalcare gli altri piuttosto che nell’auto-realizzarsi».
Per quanto tempo sei stato hikikomori?
«Ho vissuto una prima fase che è durata più o meno un anno, poi una seconda fase lunga sei mesi intensi. Non c’è stato però uno stacco, è stato più fluido. Immaginate come un grafico che sale e scende, il picco corrisponde al periodo in cui sono stato chiuso in casa. La seconda fase è scaturita da tre problematiche importanti: una storia finita male con una ragazza, la rottura col mio gruppo di amici e un intervento alla gamba, a cui è seguito un incidente stradale perché non riuscivo ancora a guidare bene. In più l’università, che era un pensiero troppo pesante.
Tutto questo mi ha portato a chiudermi. Ero già predisposto a farlo ma questi eventi sono stati la goccia che ha fatto traboccare il vaso. In quel periodo ho preso tantissimi chili, mangiavo un intero pacchetto di Kinder Délice in una sola giornata. In quel momento non mi importava della cura personale, gli zuccheri erano come una droga per me. Solo adesso sto cominciando a interessarmi al mio corpo».
Dopo essere uscito dalla fase hikikomori un o una giovane è più coerente con la propria natura?
«A mio parere sì. Da soli non si può avere carattere né personalità, in quanto senza interazioni con gli altri non si può costruire niente per sé stessi. Solo dopo essere uscito dalla fase di chiusura ho scoperto davvero me stesso. Durante quel periodo non mi rendevo neanche conto di essere triste eppure, a un certo punto, tutto ha cominciato a pesarmi. Ho cominciato a comprendere che quella vita ripetitiva dava una soddisfazione solo temporanea. Se la ripetizione si fermava sentivo la sensazione che il mondo mi cadesse addosso. Quelle poche volte che uscivo ero sempre chiuso in me stesso, come se fossi sempre nella mia stanza. Poi ne sono uscito, ma non so definire bene quando e come. È stata una ripresa fluida».
Nello stile di vita di un hikikomori secondo te, oltre ai “contro”, ci sono anche dei “pro”?
«Secondo la mia esperienza, no. Puoi averne l’impressione quando ci sei dentro, poiché ti crei una sorta di comfort zone, ma quando ne esci capisci quanto ti abbia danneggiato».
Con il senno di poi, cosa ti ha insegnato questa esperienza così importante?
«Mi ha insegnato che non abbiamo il controllo completo su ciò che facciamo o diciamo in un determinato momento; che devo parlare e sforzarmi di esprimere i miei sentimenti, pur sapendo che la persona che ho davanti potrebbe usarli per ferirmi; che tra subire e affrontare è sempre meglio la seconda».
Il rapporto tra un hikikomori e i suoi genitori è molto spesso un elemento focale del fenomeno. Perché? Puoi dirci qual è stata la tua esperienza?
«Io e i miei genitori abbiamo sempre avuto un rapporto molto frammentato, per cui non ho avuto il coraggio di chiedere il loro supporto e mi sono sforzato di dare l’impressione che andasse tutto bene. Mentre vivevo la fase di hikikomori tutti i rapporti erano stati messi in pausa, non erano cambiati. Quando ne sono uscito sono cambiate invece molte cose, ho compreso la situazione dei miei genitori e ho migliorato il rapporto con loro. Anche se non abbiamo avuto la relazione perfetta adesso stiamo bene. Ci sono dinamiche tra loro due che non potevo capire a 14 anni ma che adesso capisco. Crescere quindi mi ha aiutato a comprendere meglio alcune cose, uscire dall’isolamento mi ha permesso di riprendere i rapporti che avevo già, e in molti casi di migliorarli».
Durante il periodo di isolamento l’hikikomori crede di essere totalmente solo o sente che possa esserci anche una sola persona in grado di capirlo?
«Quando ci sei dentro sei convinto che nessuno ti possa capire, personalmente mi sentivo “l’unico al mondo”. Penso che siano poche le persone che possono comprendere le paure di ragazzi che vivono in una società sempre più complessa, in cui tutti corrono sempre. Quando andavo all’università vedevo tutti correre sempre dietro gli esami. Ho odiato l’università, l’ho lasciata per paura, per non dover stare dietro a tutto quello stress, e per le ingiustizie che vedevo continuamente, non c’era umanità».
Da quello che hai detto finora sembra che tu sia una persona altamente sensibile. Ti definiresti così?
«Durante una conversazione noto subito se gli altri ascoltano davvero chi sta parlando, e quando questo non succede provo fastidio. Lo ritengo un atteggiamento sprezzante, che fa risultare la persona insensibile e arrogante. Non supporto la presunzione di chi crede di avere la verità in mano giustificandosi con “Ai miei tempi si faceva così”, e credo che sia una frase che almeno una volta abbiamo sentito tutti. In mente mi passano in rassegna tutti i motivi per cui ritengo che quella persona abbia torto e mi sento sovraccaricato. Diventa per me una stanchezza mentale insostenibile. È per questo che voglio sempre intromettermi in situazioni del genere dicendo la mia, ma cerco di mantenere un tono pacato, o finirei per implodere.
Mi piace molto il confronto, non ho paura di esprimere quello che penso a chi non la pensa come me, anzi sono curioso e vorrei capire perché quella persona la pensa in quel modo, ed è interessante vedere che ognuno di noi ha un modo diverso di concepire la vita e di rispondere a problematiche comuni».
Rispetto alla capacità di analizzare persone e situazioni a un livello più profondo, vedendo oltre ciò che sembra, provi rabbia nei confronti dell’ingiustizia?
«L’ingiustizia è in cima alla lista delle cose che odio. Ultimamente mi sono avvicinato molto al mondo politico e mi sono sentito demotivatissimo. Capire e conoscere cosa si muove dietro certe dinamiche a volte mi fa venire da piangere. Non sopporto il fatto che ci siano persone che non hanno la sensibilità di capire che interferiscono nella vita degli altri. Se avessi il potere di cancellare l’ingiustizia lo farei».
L’isolamento sociale di un hikikomori, che pensa solo a sé stesso, può essere frainteso come egoismo. Nella tua esperienza invece sembra che ci sia spazio per l’altruismo…
«Da piccolo cercavo sempre di essere gentile e generoso, tutt’ora quando vedo qualcuno che ha bisogno ho difficoltà a rimanere fermo. Tuttavia ho una timidezza di fondo, quindi penso che mi intrometterei in una situazione che non mi riguarda, preferisco aspettare che quella persona mi chieda di dare una mano e sono apertissimo a farlo, con chiunque abbia davanti».
Come gestivi la tua vita virtuale, considerando che nel digitale l’hikikomori non ha la dimensione del tempo, dello spazio e perfino del corpo?
«Sono sempre stato un appassionato di videogiochi. Creare nella realtà virtuale il profilo di un personaggio che adoravo mi permetteva di essere chiunque volessi diventare. Potevo parlare come quel personaggio, interagire con gli altri con un’altra versione di me. Nessuno sapeva chi fossi realmente, mi sono divertito per molto tempo a creare personalità che parlassero al posto mio. Comunicavo solo via chat, mi spaventava accendere il microfono e utilizzare la mia voce».
A livello fisico come riuscivi a reggere tutte quelle ore di fronte a uno schermo video?
«Si trattava di un meccanismo on/off. Quando premevo il pulsante di accensione del computer non mi rendevo più conto di tutto quello che c’era oltre lo schermo. L’unica realtà che vivevo era solo quella dentro il monitor. Non mi accorgevo di rumori o stimoli esterni, ero come anestetizzato. Non sentivo più la consapevolezza di essere umano con un corpo, una vita e un passato. Nella fase off, a computer spento, provavo poi un senso di nausea. Come ritornare di colpo a respirare dopo essere stato in apnea per un tempo indefinito.
La soluzione era addormentarsi, ma spesso peggiorava le cose. Nel mondo degli anime esiste un sottogenere fantasy chiamato Isekai, in cui una persona normale viene trasportata, evocata, reincarnata o intrappolata in un universo parallelo. Ritengo che sia il motivo per cui molti hikikomori giapponesi si suicidino. Un pensiero che mi è passato per la mente un milione di volte. Pensavo che morendo sarei finito in un mondo parallelo pieno di poteri magici e avventure straordinarie da vivere. Era molto più allettante della vita che vivevo nel mondo reale, fatta di studio, lavoro e responsabilità».
Ti ricordi lo switch tra il momento in cui non ti fidavi di nessuno e l’istante in cui hai pensato che invece c’era qualcuno di cui poterti fidare?
«Questa domanda mi ricorda un amico che ho conosciuto durante il mio primo lavoro: avevamo diverso tempo per parlare perché andavamo insieme in macchina. All’inizio ho cercato lentamente qualcosa che potessimo avere in comune. A lui piaceva il rap, io ho cominciato a interessarmene e, alla fine, è piaciuto anche a me. Mi affascinava come i rapper parlassero dei propri sentimenti, ed è stato lo spunto per affrontare argomenti personali. Lui ha cominciato a raccontarmi sue vicende personali, sentivo che si stava fidando di me, che qualcuno volesse davvero entrare in contatto con me. Mi sono quindi fidato di lui perché ho visto che lui si fidava di me. La risposta è nella reciprocità. Se nessuno ti lancia una corda non ne esci».
Abbiamo salutato Simone ringraziandolo per la sua disponibilità e soprattutto per le sue parole di speranza. Dalla condizione di hikikomori si può uscire, come da altre condizioni di disagio psichico, personale, relazionale. Solo condividendo noi stessi con gli altri possiamo comprendere quanto gli altri siano umani e fragili come noi.
Intervista a cura di Anastasia Morale e Alessandra Pandolfini, studentesse al II anno della Scuola Biennale di Scrittura e Storytelling di Viagrande Studios. Progetto all’interno del percorso di Scrittura e Linguaggi Social, docente Valentina Cinnirella.