Intervista ad una psicoterapeuta: tra pregiudizi e verità

itCatania

INTERVISTE Viagrande Studios

Intervista ad una psicoterapeuta: tra pregiudizi e verità

Gli studenti della Scuola di Scrittura di Viagrande Studios intervistano una psicoterapeuta per sfatare i pregiudizi sulla salute mentale

Un’intervista alla psicoterapeuta e psicologa Laura Bongiorno per la rubrica A tu per tu con gli eroi di tutti i giorni, a cura degli studenti del secondo anno della Scuola Biennale di Scrittura e Storytelling di Viagrande Studios. Autrici: Michela Aiello, Paola Di Blasi e Tiziana Consoli.

Quante volte abbiamo sentito dire che “dallo psicologo ci vanno i matti”? Si tratta di uno dei tanti luoghi comuni che, per mancanza di conoscenza, circondano questa figura professionale. Noi studenti della Scuola biennale di Scrittura e Storytelling di Viagrande Studios abbiamo intervistato la psicologa e psicoterapeuta Laura Bongiorno con l’obiettivo di sfatare i pregiudizi più comuni sul mondo della psicoterapia. La dottoressa Bongiorno ha sempre amato ascoltare le persone e le loro storie motivo per cui, a diciotto anni, scelse la facoltà di Psicologia. L’incontro con la psicoterapia della Gestalt, avvenuto durante il percorso universitario, rappresentò una rivoluzione personale e professionale che le permise di scoprire affascinanti novità all’interno del proprio campo di studi.

Negli anni successivi, numerose esperienze e un vasto percorso di formazione – che abbraccia diversi rami della disciplina tra cui PsicoNeuroEndocrinoImmunologia (PNEI), psicologia oncologica, Mindfulness e gestione dello stress – hanno tracciato l’inizio della sua carriera professionale. Il tempo e l’esperienza sul campo le hanno insegnato che per aiutare gli altri bisogna, prima di tutto, ascoltare e amare sé stessi. Questa consapevolezza è il punto di partenza per il raggiungimento di una salute psicofisica che possa coinvolgere mente, corpo e relazioni con gli altri. La nostra conversazione è partita proprio dal significato di “salute mentale”, un concetto spesso frainteso che contribuisce a creare un’immagine distorta dello psicoterapeuta e della psicoterapia in generale.

Gli studenti della Scuola di Scrittura di Viagrande Studios intervistano una psicoterapeuta per sfatare i pregiudizi sulla salute mentale
Gli studenti della Scuola di Scrittura di Viagrande Studios intervistano una psicoterapeuta per sfatare i pregiudizi sulla salute mentale

Secondo lei oggi c’è un approccio più aperto al tema della psicoterapia rispetto al passato, oppure il tabù della salute mentale continua a esistere?

«Fino a poco tempo fa il percorso di laurea completo in Psicologia non esisteva, adesso invece ha dato alla figura dello psicologo innanzitutto dignità professionale. Quindi, da questo punto di vista, la situazione è indubbiamente molto migliorata. Rispetto al concetto di salute mentale, invece, il tabù esiste ancora. È proprio l’espressione “salute mentale” che fa paura perché vi è un’associazione immediata con l’idea di pazzia, di manicomio. Questo pensiero sussiste nonostante la definizione di “salute” data dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, che la identifica con la “qualità di vita” e non parla di “normalità” o “follia”».

Quindi, qual è il pregiudizio più comune tra i pazienti?

«Uno di quelli più comuni è legato proprio a questo concetto di “salute mentale”, ma la salute è dell’organismo, quindi il lavoro dello psicologo o dello psicoterapeuta è sulla persona, non sulla mente. La scissione mente-corpo è superata da tantissimo tempo: tutte le ricerche della psico-neuro-endocrino-immunologia (PNEI) hanno dimostrato che c’è un network tra mente e corpo che funziona in maniera integrata. Il terapeuta, quindi, interviene sull’infiammazione sistemica dell’organismo, ed è questo il motivo per cui, per esempio, vi sono psicoterapeuti nei reparti di oncologia o nelle scuole.

Un altro pregiudizio è il mito del “devo farcela da solo”, per cui andare dallo psicoterapeuta o dallo psicologo diventa una sorta di sconfitta. In realtà lo psicoterapeuta non è un babysitter, forse è più un “personal trainer”, che fornisce degli strumenti che il paziente dovrà utilizzare da solo. Le terapie funzionano e migliorano la vita, quando le persone imparano a diventarne i protagonisti».

Chi svolge la professione di psicoterapeuta deve avere anche una grande empatia, o comunque ne deve possedere una buona dose. Allo stesso tempo, però, “assorbe” quello che i suoi pazienti riversano. Come fa un professionista a tenere alto il livello di empatia, riuscendo a preservare sé stesso?

«Una delle cose più difficili da imparare per un bravo terapeuta è il saper “non assorbire”, tuttavia questa professione richiede certamente una buona disposizione all’ascolto. Il paradosso è che più sei sensibile, prima rischi di bruciarti. D’altra parte, va detto che a volte confondiamo la parola “empatia” con l’identificazione. Ma l’empatia consiste nel sentire l’altro riuscendo, al tempo stesso, a sentire sé stessi. Immaginiamo l’empatia come quando si va a visitare un paese straniero con il proprio passaporto, non bisogna perderlo. Uno dei miei terapeuti mi diceva che “non puoi aiutare un altro se tu non stai bene”. Questo vale per tutti, a maggior ragione per chi sceglie questo mestiere».

Gli studenti della Scuola di Scrittura di Viagrande Studios intervistano una psicoterapeuta per sfatare i pregiudizi sulla salute mentale
Gli studenti della Scuola di Scrittura di Viagrande Studios intervistano una psicoterapeuta per sfatare i pregiudizi sulla salute mentale

A proposito di questo mestiere: qual è il percorso di formazione che deve eseguire uno psicoterapeuta?

«Partiamo dalla distinzione tra psicologo e psicoterapeuta. Quando mi sono laureata il percorso formativo del corso di laurea in Psicologia era di cinque anni ed era seguito da un esame di Stato per l’iscrizione all’Albo. Oggi invece la laurea è 3+2 e sono previsti due Albi a seconda che si tratti della laurea di primo livello o della magistrale. Anche l’esame di Stato e il tirocinio hanno subito qualche cambiamento, ad ogni modo per poter diventare psicoterapeuti bisogna completare la specializzazione con un ulteriore percorso quadriennale.

La differenza è nelle competenze di tipo clinico che lo psicoterapeuta deve avere per potersi occupare anche di psicopatologia, mentre lo psicologo ha una formazione più generica e non necessariamente orientata alla clinica (per esempio potrebbe aver scelto indirizzi di studio volti alla ricerca, al mondo del lavoro, della scuola…). Oltre a queste due professioni, un’altra figura in quest’ambito è quella dello psichiatra che è un medico con specializzazione in Psichiatria che può iscriversi all’albo degli Psicoterapeuti».

Per chi decide di iniziare un percorso diventa importante riuscire a scegliere lo psicoterapeuta più giusto. Come si fa a capire quale lo sia?

«Non è facile, manca la cultura della psicoterapia e la gente si vergogna a chiedere consiglio ai conoscenti, diversamente da quanto succede per qualunque altro medico. Quindi spesso va a cercarlo su internet, però mancano i criteri su cui basare la scelta. Un buon approccio sarebbe leggere il curriculum e gli orientamenti in psicoterapia, perché non tutti i terapeuti sono adatti a tutte le tematiche. Alcuni sono specializzati per le terapie familiari, altri per le terapie di coppia, altri ancora per i disturbi d’ansia, ecc. Altri elementi importantissimi, dato che la psicoterapia è un incontro tra esseri umani, sono il feeling e la coerenza. Non posso aiutare una persona ad avere meno paura dei giudizi degli altri se io stessa ne ho paura».

Ma non si corre il rischio, in questi casi, di rivolgersi alla persona con cui si ha più affinità quando, invece, la soluzione giusta potrebbe essere quella di trovare qualcuno che non ci assecondi?

«La mia risposta si riferiva al primo approccio ma è chiaro che, se pronta, la persona può scegliere di affrontare un altro tipo di percorso, non legato al feeling, a simpatie o antipatie con il terapeuta. C’è un rischio da considerare: quando ci rivolgiamo a un qualunque professionista, a cui attacchiamo un’etichetta di autorevolezza, tendiamo a non metterlo mai in discussione. In questi casi dobbiamo ricordarci che, come in tutti gli ambiti, possiamo trovarci di fronte a dei bravissimi o cattivissimi terapeuti. Di contro, è fondamentale che il terapeuta non si ponga in una posizione di giudizio. Quando vi sentite giudicati, anche se pensate che il giudizio sia giusto, quello è un campanello d’allarme che molto probabilmente non vi siete rivolti alla persona giusta».

Spesso capita che non si abbia una vera consapevolezza della situazione interiore che si sta vivendo. Quindi, ci siamo chiesti nel momento in cui si inizia un percorso di psicoterapia come si fa a capire se il terapeuta ci sta giudicando o sta, semplicemente, dicendo qualcosa che non vorremmo sentire?

«L’argomento è complesso, dipende molto dalla tipologia di psicoterapia che si sceglie di seguire. Ci sono orientamenti terapeutici molto diversi. In alcuni casi i pazienti parlano pochissimo e lo spazio riservato al terapeuta è maggiore, in altri invece si verifica l’esatto opposto. A volte si stabilisce un rapporto gerarchico con il paziente, in altre il rapporto è assolutamente paritario. Poi, ci sono diverse modalità comunicative e uno psicoterapeuta deve scegliere la strategia che si adatta meglio al paziente. Usare un linguaggio brutale che lo metta disagio o lo faccia sentire, in qualche modo, giudicato è controproducente.

È più probabile che si usino frasi come “Quello che mi stai dicendo mi fa un effetto dissonante, puoi provare a spiegarmi meglio cosa intendi?” che si adatta meglio al contesto. Anche nei casi in cui è evidente che il paziente stia commettendo un errore. Ci sono molti modi per far sì che una persona comprenda, ma bisognerebbe astenersi da qualsiasi tipo di giudizio». 

Siamo tutti reduci dall’esperienza del Covid che ha lasciato un segno sulle nostre vite e anche delle conseguenze psicologiche. Dopo questa esperienza è cambiata la sintomatologia? È possibile una lettura positiva?

«Sono stati svolti già tanti studi su questo fronte, anche se chiaramente i dati più attendibili li avremo tra 5 o 10 anni. Quello che è successo nella maggior parte dei casi è che molto si è “slatentizzato”, cioè quello che era sullo sfondo è entrato in figura, è stato portato fuori. Se c’era una sofferenza che restava sullo sfondo, nascosta da un lavoro, dalla routine o dagli impegni, quando questi sono crollati è emersa. È stato molto drammatico. Sicuramente i più danneggiati sono stati gli adolescenti nella fascia di età tra i 14 e i 18 anni. Ovvero coloro che si trovavano nella fase in cui il gruppo, l’aggregazione, l’intimità, diventa importante».

Considerando quello che abbiamo appena detto, in Italia si affronta con la giusta importanza il senso di ansia e di stress?

«No, altrimenti ci sarebbero molti più psicologi, soprattutto nelle scuole. Oggi ci sono degli sportelli in alcuni istituti ma non riescono ad evadere tutte le richieste. Inoltre, l’attività dello psicologo non va intesa solo come ascolto ma anche, e soprattutto, come insegnamento alla gestione delle emozioni. Nessuno ci insegna da piccoli cosa sono o come si gestiscono: se così fosse avremmo molti problemi in meno. Certo, va riconosciuto che ultimamente vi è un’attenzione politica rispetto al tema: basti pensare al bonus psicologo che, seppur perfettibile, rappresenta comunque un semino nella direzione giusta».

Quindi il focus dovrebbe essere quello di lavorare su questi ambiti in modo da creare condizioni più sane per tutti?

«Il focus è il sovraccarico di stress. Per “sovraccarico di stress” intendo una risposta complessa che l’organismo mette in atto per sopperire alle richieste eccessive dell’ambiente. Ci sono molti studi su tutti i meccanismi che portano dallo stress normale alla patologia e che tutti dovremmo iniziare a conoscere. Dobbiamo sapere che la salute dipende dall’alimentazione, dall’inquinamento, dalla gestione delle emozioni e dal movimento fisico. Queste quattro cose sono importantissime perché su queste abbiamo potere di agire».

Come capire se il percorso di psicoterapia intrapreso da una persona che ci sta vicino sta funzionando?

«È possibile capire se una determinata terapia sta funzionando su di te ma non sugli altri, perché in genere è molto complicato vedere i miglioramenti di chi ci sta vicino. A volte si tratta di miglioramenti non visibili o non particolarmente evidenti. Il cambiamento potrebbe essere visibile quando si superano paure concrete, ma non è detto che la vita del paziente sia migliorata del tutto. Questo perché la psicoterapia non serve a risolvere un singolo problema, è qualcosa di diverso, è una ristrutturazione molto profonda. Ciò che dovrebbe cambiare è l’approccio che il paziente ha nei confronti della vita e, nella maggior parte dei casi, si tratta di qualcosa che non si vede dall’esterno».

Gli studenti della Scuola di Scrittura di Viagrande Studios intervistano una psicoterapeuta per sfatare i pregiudizi sulla salute mentale
Gli studenti della Scuola di Scrittura di Viagrande Studios intervistano una psicoterapeuta per sfatare i pregiudizi sulla salute mentale

Una delle domande più comuni è: perché andare in terapia con uno psicoterapeuta non è come parlare con un amico o con un’amica?

«Prima di tutto perché un amico assorbe emotivamente, quindi non è neutro. Quella del terapeuta è una posizione ben precisa, si tratta di una figura che non può essere troppo vicina al paziente. E questo è il motivo per cui gli psicoterapeuti non possono prendere in terapia i familiari o gli amici stretti: sarebbe troppo difficile essere obiettivi. Poi, in genere ci si rivolge a un amico per avere un consiglio, mentre i terapeuti non danno consigli, o meglio, la maggior parte non lo fa. Perché? Innanzitutto perché il paziente avrà già analizzato tutte le opzioni possibili, e soprattutto, perché deve farcela da solo. Il terapeuta può indicare la via o fornire degli strumenti, ma è il paziente che compie l’evoluzione. Molti credono che andare in terapia significhi semplicemente fare una chiacchierata, che il terapeuta abbia il compito di ascoltarti e trovare una soluzione. In realtà non funziona così.

È il terapeuta che deve guidare il paziente, usando il linguaggio più adatto e ponendo le domande corrette. Quindi, gli amici sono una parte fondamentale della vita, il supporto sociale è un importante fattore di salute, ma il ruolo del terapeuta è un’altra cosa. Penso che l’esistenza di questo pregiudizio sia dovuta a una mancanza di conoscenza di ciò che accade in terapia. E, sotto questo punto di vista, film, fumetti e altri prodotti di intrattenimento generano spesso un’immagine distorta. Ma sono fiduciosa, credo che questo fenomeno sfumerà con il passare del tempo, sono certa che chi fa terapia e ha un po’ di esperienza conosce perfettamente la differenza».

La Scuola Biennale di Scrittura e Storytelling di Viagrande Studios ha riaperto le iscrizioni, visita il sito per avere maggiori informazioni

Le parole di Laura Bongiorno e la chiarezza con cui ha condiviso, durante la nostra intervista, una fetta della propria vita, hanno davvero lasciato un segno. Consapevoli della diffidenza e dei pregiudizi che, ancora oggi, avvolgono il mondo della psicoterapia condividiamo lo stesso ottimismo della nostra ospite. Tutto nella speranza che, poco alla volta, la salute mentale cessi finalmente di essere un tabù.

Articolo a cura delle studente del secondo anno della Scuola Biennale di Scrittura e Storytelling di Viagrande Studios. Autrici: Autrici: Michela Aiello, Paola Di Blasi e Tiziana Consoli. Percorso Giornalismo e Linguaggi Social, docente Valentina Cinnirella.

Intervista ad una psicoterapeuta: tra pregiudizi e verità ultima modifica: 2024-04-24T12:14:14+02:00 da Redazione

Commenti

Subscribe
Notificami
0 Commenti
Inline Feedbacks
View all comments
Promuovi la tua azienda in Italia e nel Mondo
To Top
0
Would love your thoughts, please comment.x