Gli studenti della Scuola Biennale di Scrittura e Storytelling di Viagrande Studios ci raccontano noti episodi di cronaca divenuti in seguito soggetto di apprezzate opere letterarie. Nei loro lavori descrivono prima il fatto, con stile asciutto e neutrale, e poi ci fanno emozionare con la narrazione della storia. Un unico avvenimento, due punti di vista diversi, in bilico tra giornalismo e letteratura. Questa settimana pubblichiamo il lavoro di Roberto Zito, che racconta in modo intenso lo sconvolgente omicidio di Luca Varani, al centro dell’opera “La città dei vivi” scritta da Nicola Lagioia.
IL FATTO, nudo e crudo. Cronaca a 360°
Cronaca. Il giorno prima dell’udienza, Marco Prato si è tolto la vita nella sua cella a Velletri Omicidio Varani: suicida in carcere uno dei due carnefici. Il delitto che ha sconvolto l’Italia: il giovane torturato e ucciso da due rampolli romani, dopo un festino a base di sesso, alcol e droga.
ROMA – Si è suicidato nella notte tra il 19 e il 20 giugno 2017 nella cella del carcere di Velletri Marco Prato, uno degli autori, insieme a Manuel Foffo, dell’omicidio di Luca Varani, avvenuto nella notte tra il 3 e il 4 marzo 2016. Marco Prato, che prima dell’omicidio era noto negli ambienti della movida romana come Pr e socio fondatore di un locale notturno, era in attesa dell’udienza che si sarebbe svolta l’indomani.
Il processo nei confronti di Prato era iniziato ad aprile scorso, nel frattempo Prato continuava a professarsi innocente, dicendosi succube di Foffo. Lo ha ribadito anche nel biglietto che ha lasciato in cella, prima di chiudersi in bagno e soffocarsi con un sacchetto di plastica in testa. Una fine che era stata preannunciata da un primo tentativo di suicidio, avvenuto la sera del 5 marzo 2016: Marco Prato si era chiuso in una stanza dell’Hotel San Giusto di Roma, dove era stato ritrovato in stato confusionale insieme a cinque lettere di addio, destinate ai suoi cari. Appena 24 ore prima, Marco Prato e Manuel Foffo avevano adescato il giovane Luca Varani, un 23enne di origini jugoslave, adottato da una famiglia romana e impiegato in una carrozzeria, per un festino a base di sesso, droga e alcol.
Omicidio Varani: lo scopo era fare male a qualcuno
Varani, giunto nell’appartamento attirato dal compenso, si è ritrovato in una trappola architettata allo scopo di «fare del male a qualcuno», come gli stessi carnefici hanno riferito alle autorità. In meno di due ore, sul corpo di Varani, stordito a causa dell’Alcover mischiato nei cocktail, sono state inferte 107 ferite da tagli e martellate. La morte è sopraggiunta per una coltellata inflitta nel petto, dopo una lenta agonia. L’epilogo di questo delitto che ha sconvolto l’Italia si è consumato con il suicidio di Prato, mentre Manuel Foffo è stato condannato a 30 anni di carcere in primo grado, al termine del rito abbreviato, il 21 febbraio 2017.
LA STORIA, narrare i fatti di cronaca
Questa è una storia orribile, che ha coinvolto tre persone: due carnefici, una vittima. Non ci sono foto di loro tre assieme, in teoria nemmeno dovevano conoscersi. Di questi, due sono morti, uno al momento sconta una pena di 30 anni. Questa è anche una vicenda che coinvolge tre famiglie, tre padri, tre madri, poco importa se una di queste famiglie fosse adottiva. Ma è anche una vicenda che ha coinvolto l’Italia intera, che ha sconvolto un’intera nazione, perché non c’è solo il fatto di sangue, estremamente brutale, violento, feroce, c’è anche il mistero di quali vite nascondiamo, di cosa ci portiamo dentro, del dolore che non riusciamo a esprimere, e quando lo esprimiamo assume la forza dell’odio, e poi della violenza, infine della morte.
Questa storia, dicevo, ha inizio con due carnefici. Uno di questi, ve l’ho anticipato, è morto suicida, nella sua cella del carcere di Velletri, la notte del 20 giugno 2017. Per quanto la sua fine avesse destato un certo interesse mediatico, non si poteva dire che fosse del tutto inaspettata. Marco Prato aveva già tentato di uccidersi più di un anno prima, la sera del 5 marzo in una stanza dell’Hotel San Giusto di Roma. In quella stanza aveva lasciato un biglietto con su scritto: «Perdonatemi. Non riesco. Sono stanco e una persona orribile. Ricordate solo il bello di me. Vi amo».
Ciao amore ciao, ascoltava Marco mentre aspettava la sua fine
Marco era una persona nota nel panorama della movida romana, specialmente per i suoi eccessi, i suoi flirt sbandierati, la sua ricerca ostentata di perfezione estetica, e al tempo stesso il suo desiderio di diventare presto donna. Di una in particolare era davvero ossessionato: Dalida, la cantante, di cui voleva seguire le orme. Non a caso, in quella stanza dell’Hotel San Giusto, secondo i testimoni, si mise ad ascoltare per interminabili ore la canzone “Ciao amore ciao”. Aspettando una fine che è giunta solo un anno dopo, la notte prima del suo processo.
Di Manuel Foffo ci sono invece meno tracce, meno video o foto sparse sui social e sulla rete. La sua era comunque una famiglia molto nota della Capitale: il padre è un imprenditore, proprietario di un ristorante rinomato di Roma, e Manuel sembrava che avrebbe preso le redini del piccolo impero della sua famiglia. Ma in quegli anni si barcamenava tra studi universitari fuoricorso e progetti che, sperava, lo avrebbero reso milionario. Manuel nascondeva anche una forte dipendenza da alcol e cocaina, e ancora più nel profondo del suo subconscio cresceva un odio verso suo padre, forse perché l’eredità della sua famiglia era troppo pesante per lui, o forse perché non si sentiva accettato come figlio. O forse, Manuel stesso non riusciva ad accettarsi, perché la sera di Capodanno aveva fatto sesso con un uomo. Marco Prato.
Gay dichiarato, mentre lui, come tutti i Foffo, ama le donne vere. Lo ha dichiarato lo stesso Valter Foffo, in un’intervista. “A noi Foffo piacciono le donne vere”. Quella notte infatti, la notte dell’omicidio, Marco Prato era vestito da donna. E Manuel aveva appena confessato il suo desiderio più proibito: uccidere suo padre.
Manuel aveva appena confessato il suo desiderio più proibito: uccidere suo padre
A volte la vita è una roulette russa. E proprio come nella roulette russa, la mattina del 4 marzo Marco Prato e Manuel Foffo, che si erano dati appuntamento per un festino nell’appartamento della madre di Foffo, avevano gironzolato di notte per le vie di Roma in cerca di qualcuno a cui fare del male. Erano strafatti di droga, pare che avessero speso ben 1500 euro in cocaina, la loro percezione della realtà era prossima all’allucinazione. I loro deliri ormai si rincorrevano, tutti basati sul sangue, sull’uccisione, sulla vendetta contro il mondo. Tuttavia, quella notte il proiettile di quella roulette non andò a segno.
Poteva finire lì, potevano rientrare nell’appartamento e spegnere quei pensieri assassini sul nascere. All’appartamento ci tornarono, ma non prima di fare una telefonata: Marco Prato chiamò una sua conoscenza, Luca Varani. Un giovane ventitreenne che si prostituiva, ma nessuno lo sapeva. E Luca non sapeva che, accettando, era caduto in una trappola.
Luca, un giovane solare che però nascondeva un segreto
Era un ragazzo Luca Varani che, al contrario di Prato e Fotto, non proveniva da famiglie facoltose. Era originario di Sarajevo, nella Bosnia-Erzegovina, adottato da una famiglia di Roma all’età di 10 anni. Qui Luca aveva frequentato la scuola, fino a quando aveva deciso di lasciare gli studi dopo essere passato dallo scientifico al tecnico industriale. Poi ancora piccoli lavoretti e locali notturni, fino all’impiego in una carrozzeria del suo quartiere. Fidanzatissimo da otto anni e appassionatissimo di lei, Marta Gaia, tanto che si era tatuato il suo nome sul braccio. Ma al di fuori della famiglia, un “altro” ambiente sapeva che Luca si prostituiva con uomini e tra i suoi clienti c’era anche Marco Prato; a cui precisa, all’alba del 4 marzo, che a mezzogiorno se ne deve andare, prima di accettare la sua proposta. Luca andò nell’appartamento di Manuel Foffo in autobus, quella mattina. Non ne uscì vivo.
Omicidio Varani: “è come se mentalmente ci fossimo detti è lui. Tra me e Marco è scattato come un tacito accordo”
«Non appena l’ho guardato ho capito. Ho guardato lui. Poi ho guardato Marco ed è come se mentalmente ci fossimo detti è lui. Tra me e Marco è scattato come un tacito accordo». Queste sono le parole di Manuel, che ricostruisce l’ingresso in casa di Luca Varani. È lui la vittima, è lui quello da uccidere. Lo hanno trovato. A quel punto lo riempiono di cocaina, poi di vodka, poi di un cocktail con dentro l’Alcover per stordirlo. Dopo un po’ Luca ha cominciato a stare male, è andato in bagno a vomitare, e da lì è cominciata la violenza. I due lo seviziano usando un coltello a lama corta, poi un altro coltello più grosso, poi un martello.
Lo trascinano nella camera da letto, e lì le torture diventano sempre più efferate. Eppure, Luca resiste, non muore. Nonostante le più di cento coltellate e ferite, Luca non muore, continua a resistere per quasi due ore. Fino al colpo di grazia, la lama finale che trafigge il petto. Dalle testimonianze, non si riesce a capire chi dei due abbia effettivamente inflitto quel colpo. Si sa solo che la polizia, il giorno dopo, ritroverà il corpo senza vita di Luca Varani in quel letto, con il coltello ancora nel petto.
Il giorno dopo l’omicidio Varani i due assassini si dicono addio!
La sera del 4 marzo, seduti in un tavolo di un locale chiamato Dallas, vicino un cimitero, Marco Prato e Manuel Foffo si dissero addio. Marco gli disse che si sarebbe suicidato, Manuel si offrì di accompagnarlo in albergo ma lui non volle. Così, dopo quell’addio, Manuel tornò nell’appartamento dove giaceva Luca Varani. Lo lasciò l’indomani mattina alle sette e mezzo, per andare al funerale di suo zio. Al funerale la famiglia Foffo non ci andò: Manuel confessò l’omicidio mentre era in macchina con il padre. Fecero dietro-front, tornarono nell’appartamento con la polizia, trovarono il cadavere.
Qualche ora dopo, trovarono anche Marco Prato, nella stanza dell’Hotel San Giusto. Seguirono una serie di giorni molto caotici, durante i quali la tempesta mediatica esplose in tutta la sua furia: ci fu chi si sottrasse alle telecamere, chi, come il padre di Luca Varani, diede sfogo al proprio immenso dolore chiedendo giustizia, e poi ci fu Valter Foffo. Che a “Porta a Porta”, su Rai1, in prima serata, raccontò quello che gli aveva confessato il figlio in macchina, appena due giorni prima. «Un ragazzo buono – disse il padre di Manuel ai microfoni di Bruno Vespa – Forse eccessivamente buono».
L’Omicidio Varani oggi è un libro e quella storia vive tra le pagine del romanzo di Nicola Lagioia
Questa storia oggi è diventata un libro, “La città dei vivi” di Nicola Lagioia. A breve diventerà una serie tv per Sky. Ne sono stati tratti anche podcast, spettacoli teatrali, programmi d’inchiesta, e inoltre articoli su articoli su articoli che analizzano la psicologia degli assassini, le cause, le motivazioni e le conseguenze di questo omicidio. La verità è che questa storia ci turba perché nessuno riesce a capire con certezza cosa sia scattato nella mente di quei due. Nessuno vuole sapere cosa si nasconde nell’abisso profondo di ogni persona. Sarebbe bastato poco, sarebbe bastato dirlo, parlare, comunicare. A costo di tirare fuori i propri segreti, le proprie verità, i propri desideri più reconditi. Questa è una tragedia fatta di vite nascoste, di silenzi e di vuoti interiori, nascosti dietro un fiume di parole che ormai servono a poco. Perché Luca Varani è stato ucciso. Marco Prato si è ucciso.
La solitudine, il triste colpevole di vite spezzate per sempre
Resta solo Manuel Foffo, condannato a trent’anni con rito abbreviato. Solo lui, in una cella del carcere di Rebibbia. Scrive Nicola Lagioia, e non c’è modo migliore per esprimere quello che mi fa provare questa storia: «Avrei potuto congetturare all’infinito su chi fosse più manipolatore tra Marco e Manuel, su come le frustrazioni dell’uno e gli scompensi affettivi dell’altro li avessero resi capaci di cose inimmaginabili. Se tuttavia dovevo indicare, subito dopo l’istinto di sopraffazione, il male che mi sembrava precedere gli altri, l’avrei rintracciato in una particolare solitudine. La solitudine che, tanto più se affollata, ci fa marcire nel nostro ego, e che è tutt’uno con la paura di non essere compresi, venire feriti, derubati, danneggiati, la paura che ingrassa le nostre sfere invisibili, che ci porta a calcolare nell’angoscia, la paura attraverso cui passa, pervertito, persino il bene che ci sforziamo di fare».
A cura di Roberto Zito, studente della Scuola Biennale di Scrittura e Storytelling di Viagrande Studios