Enrico IV è il primo dei racconti che proporremo in questa che vuole essere una rassegna di letture di racconti ad opera della Scuola Biennale di Scrittura e Storytelling. Vita d’altri è una masterclass pensata per mettere gli studenti della Scuola Biennale di Scrittura e Storytelling di Viagrande Studios prima in contatto con l’improvvisazione della creazione attraverso oggetti non loro. Poi – immergendosi nella costruzione del racconto e del primo editing – i testi da loro realizzati sono stati letti e valutati da tre esperte del settore.
Enrico IV, di Laura Alfino
Una folla di ceri, mani in preghiera, braccia protese, intona:
«Altro non s’ode che il cicaleccio…» …di ragazzetti del quarto liceo dalle barbe ispide, coi papillon stretti stretti ai colli rubizzi, le grosse scarpe prese in prestito dai padri. Ed è la festa di Santa Lucia.
Flora intagliava statuette di Madonnine e Cirillo, suo fratello, le dipingeva.
«Tic tac, tic tac. Eh, sorellina?»
Flora sbuffò, si schiacciò sul capo la sua coroncina di verbena e continuò a intagliare.
«Sta passando! Sta Passando! Evviva Santa Lucia!»
Era la madre di Flora a urlare, entusiasta; si avvicinò alla porta aperta della falegnameria “De Luigi e figli”.
«Alzatevi, voi due!»
«Ma ho da finire gli occhi di Lucia!»
«Li finirai domani! Padre Alfio non se la prenderà!»
A Flora non importava affatto di Padre Alfio o di Santa Lucia.
Ore 15:00, Festa di Santa Lucia.
Flora pensa: Un giovane sconosciuto ha dimenticato il suo portagioie.
La “De Luigi e figli” – capitanata dal signor Giacomo, padre di Flora e Cirillo – offriva, ogni anno, prima della festa di Santa Lucia, dei laboratori d’intaglio. Quell’anno – era il 1974 – toccò ai ragazzi del liceo Giovanni Pascoli a indirizzo musicale: giovani che suonavano nella banda e desideravano diventare professori di strumento. Alle ore quindici, ragazzi della quarta D varcarono la porta della falegnameria.
I libri di Flora erano sparsi trai tavoli, punteggiati di trucioli di legno. Altri, erano appesi. A uno – trai giovani – piacquero le pagine ondulate di quell’astrusa biblioteca sospesa.
«Appendi tutti i tuoi libri così?», ma Flora non rispose.
Durante quei pomeriggi e nei pomeriggi che seguirono, Flora e Cirillo affiancarono Giacomo.
Introdussero gli strumenti del mestiere – scalpello, pialla, truschino, punteruolo, troncatrice, morse. A Flora fu dato l’incarico di girare tra le sedie mentre quella classe laboriosa tentava d’intagliare. Da studentessa e lavoratrice indefessa, Flora divenne Regina. E, improvvisamente – al suo passaggio – tutte le teste erano chine, tutti le ubbidivano. Una sua compagna, una tale Gina, esclamò: «È per colpa di quei tuoi occhi! S’innamorano tutti!».
«Non credo sia amore, Gina! Ubbidiscono e basta!»
E Gina scuoteva la testa.
«Perché arrossisci, Flo?»
«Non arrossisco!»
«Oh, Misericordia, Flora! Non dirmi che ti piace…qualcuno di quei…?»
«Suvvia! Io ho una devozione sola» e si allontanò correndo verso la falegnameria.
Ognuno intagliò il proprio soggetto. Molti di questi riguardavano Santa Lucia: tanti occhi – sbilenchi, storti, socchiusi, sbarrati.
«Niente occhi per me! Io voglio intagliare un portagioie!» sentenziò uno dei ragazzi del quarto liceo. Era lo stesso ragazzo che aveva chiesto a Flora se li appendesse tutti, i suoi libri.
L’ultimo giorno del laboratorio i giovani della 4D consegnarono a Giacomo i loro manufatti: tutti completi, tutti malfatti. Giacomo li scrutò, li rimise nelle mani dei giovani studenti e li congedò con un sorriso.
Ore 15:05, Festa di Santa Lucia.
Flora pensa: Un giovane sconosciuto che frequentava la 4D ha dimenticato il suo portagioie. La madre di Flora era alla porta, il giorno della festa di Santa Lucia, del 1974. Flora s’avvicinò, ma con noncuranza. Cirillo la pungolò, di nuovo: Tic tac, tic tac! Sorellina, il tuo amato non verrà. La processione – coi suoi sfarzi, le sue trombe e i suoi tamburi – si fece sempre più vicina. Poi, Santa Lucia, sulla portantina traballante, si fermò di fronte alla falegnameria.
Era una statuina di porcellana.
Nulla aveva a che fare col legno: con le squarciature donatelliane o con la furia realistica di Niccolò Dell’Arca. La porcellana inibisce, pensò Flora. È un materiale innocente. Santa Lucia – a cui erano stati cavati gli occhi – li teneva sul un piattino bianco, come fossero dolcetti. Flora l’avrebbe voluta in legno, Santa Lucia. La Santa con gli occhi cavati avrebbe dovuto essere così, pensò. Chiuse gli occhi, solenne.
Una voce venne da chissà dove:
«Non ascoltare tuo fratello, bimba bella. Lui è qui»
Era la Santa, ora Santa davvero.
«Il mio nome comincia per E» era il terzo giorno di laboratorio e il giovane dei libri appesi e del portagioie si annunciò come un indovinello.
«È un pettine dai denti larghi, allora!» rispose Flora.
«Un…che?»
Flora nascose il pollice dietro il palmo della mano e fece per pettinarsi i capelli con indice, medio, anulare, mignolo. Il giovane il cui nome cominciava per E. non era interessato a Santa Lucia e non suonava nella banda. Nella sua classe, invece, tutti suonavano nella banda. Alcuni suonavano anche strumenti antichi, diceva, come il mandolino e certi flauti secolari. Lui suonava a scuola, ovviamente. Ma non gli importava granché.
«Non parteciperai alla Festa, allora?»
E. non rispose. Si sollevò, ritto sui piedi, simile a un militare sull’attenti. Guardò le ginocchia di Flora. Aveva sollevato la gonna – quella sera. Le era più agevole incrociare le gambe sulla sedia; per questo, lo faceva.
«Altro non s’ode che il cicaleccio d’una banda di cretini! E sù, sù, sù, in alto, sulla collinetta, una ragazzina corre a perdifiato pur di vedere…ma no! È caduta! Cade sempre, questa ragazzina. Le sue ginocchia…!» biascicò.
«Che storia è?»
«La tua storia! Tu che sali sulla collinetta per vedere Santa Lucia!»
«Non m’interessa Santa Lucia. Ma tu che vuoi fare? Il cantastorie, forse? …Ma che ne sai di me?»
A Flora scesero due lacrime. Se ne stupì. S’arrabbiò.
E. fece spallucce, posò il suo portagioie appena abbozzato e corse fuori.
«Che idiota!»
«Tesoro mio» esordì Giacomo. «Lascialo stare. Pensa di poter comportarsi così perché è il figlio del sindaco».
Flora cominciava per F.: uno dei larghi denti del pettine E è saltato. Se E perde un segmento fa traballare la F: le ginocchia si sbucciano.
Ore 15:10.
Un giovane sconosciuto il cui nome cominciava per E e che frequentava la 4D ha dimenticato il suo portagioie.
Giovane incravattato numero uno, numero due, numero tre, numero quattro, numero cinque, numero sei, numero…un’armatura di carta pesta dipinta d’argento! E più nessun cicaleccio. Flora si trovò per strada – sgomitava, contava i giovani della banda e i devoti. La calca la spinse più e più volte: nessuno vuole Flò, la figlia del falegname, intagliatrice di Madonnine.
La coroncina – che credeva di aver calcato bene sulla testa – balzò via. Produsse un pimpante zig zag tra le teste della gente. La perse. La gonna, che aveva sollevato e annodato a un fianco, le ricadde sui piedi. E i piedi! In casa andava gironzolando sempre scalza. Era scalza anche in quel momento. Forse la madre la chiamò, ma fu breve. Un Floooooora lontano, un Flooooora senza importanza, un Flooooora che sottintende: non cercare! Flora scalciò, sgomitò, si dimenò. Allungò la mano verso il giovane con l’armatura in carta pesta. Ma…lo perse.
“Le immagini evanescenti del racconto e la suggestione che suscitano, ti rimangono dentro anche dopo la lettura” Manuela de Quarto
Un giovane della 4D – lo riconobbe – suonava il tamburo. D’un tratto, accanto a lui, scorse nuovamente la carta pesta argentata.
«E! Che ci fai qui?» e lo agguantò da una manica.
«Enrico IV!».
Era la sua… voce? Flora si sentì graziata dalla Santa in porcellana.
«Il tuo vero nome?»
«È il mio nome!»
«No. Il tuo vero nome?»
E il tamburo che li separava si mise a rintoccare. Non era un musicista, quel giovane. Era un orologiaio. O un catechista:”Non è il caso che una ragazzina pura come te si conceda così facilmente a..” Aveva tenuto gli occhi chiusi per tutto il tempo. Quando li riaperse il giovane in carta pesta era sparito.
Ore 15:15, festa di Santa Lucia.
«Intagliare» era il mestiere di Giacomo.
Intagliare era il gesto di Flora. Intagliava sulla sedia, sul dondolo, sul divano.
«Sei ferma, anche quando ti muovi».
Era la quarta lezione di E. alla falegnameria.
Il tic tac del tempo gli disse: siedi su una sedia, accanto alla figlia del falegname. Fa che si sieda accanto a te. Probabilmente non ultimerai il tuo portagioie. In E. la pazienza mutava in pigra contemplazione. Per di più, E. intagliava accanto alla finestra. Si scostò da legni e scalpelli. Fuori s’udiva il fragore di bambine che giocavano a intrecciarsi i capelli, a scambiarsi la verbena – pianta sacra a Santa Lucia – per la realizzazione di coroncine.
“Un racconto con una voce nuova, unica. Un piacere per la vista e per la mente. Corpo e anima.” Alice Titone
Nessuno si curava del proprio intreccio. Tutte osservavano l’intreccio dell’altra. Che sia meno bello del mio, per favore! Per favore! Finché la bambina bruna, sulla destra, non sciolse la sua treccia. E il gioco di tutte… finí. Assomigliava a Flora – quella bambina!
Ore 15:20, Festa di Santa Lucia.
«Sei troppo devota a quella falegnameria» proruppe Gina.
«Non alla falegnameria, Gina! Che sciocca! Io sono devota alla ricerca»
«Ma se non esci mai da quella falegnameria! Tranne che per andare a scuola, s’intende»
«Io cerco nel legno, Gina. Intaglio e cerco».
«Ma ci sarà lui, alla Festa?»
«Io non lo cercherei, lui».
Aveva cercato, con occhi, mani, braccia. Non aveva trovato nulla. Si tirò fuori dalla folla: il petto si contrasse, si distese, si contrasse, si distese. E i piedi erano scuri, le piante ruvide. Le guance – se qualcuno l’avesse vista – avrebbero potuto esser… avvampate.
«Me ne farò una…croce»
«Non una ragione?»
Era E., con l’armatura di carta pesta in mano. Ma non era E. del portagioie. Era un E. qualsiasi – Enrico IV della processione.
«Sono un’intagliatrice. Mi intaglierò una bella croce con una E. sul retro e me l’appenderò al collo».
«Mi sembri un po’ matta, sai? Sei della 3B, vero?»
«Sì! E il tuo nome finisce per…?»
«Per O, te l’avevo già detto! Enrico IV!»
Flora rise, ma fu un riso debole. E non si domandò neppure perché, alla festa di Santa Lucia, vi fosse Enrico IV.
L’ attendevano dieci statuette alla falegnameria.
La lettera E – di Enrico – è un pettine dai denti larghi.
La lettera F – di Flora – è un pettine dai denti larghi che ha perduto l’ultimo dente.
La lettera O – ultima lettera di Enrico – è stupore. È Luna piena. È cerchio, in cui saltar dentro. Ma chi si vuol tuffare?
Resta la lettera A. – ultima lettera di Flora. È una casina, una montagna, la falegnameria del padre di Flora che si regge su due palafitte e talvolta traballa. Tremerà tutta la falegnameria con la banda, con Santa Lucia, con tutte le statuette che ho ancora da completare.
Mi guardai le ginocchia, assomigliavano alle ginocchia di mia nonna Flora. Me lo disse mia mamma, in un giorno d’aprile. E anche gli occhi – di santa e…di santa soltanto.
La scatola che ho sulle gambe contiene: la fotografia di un bel giovane col papillon slacciato, una croce in legno con una E scritta sul retro, un’immaginetta di Santa Lucia a cui son stati cancellati gli occhi con una penna e dietro una preghiera “Altro non s’ode che il cicaleccio…”, un rimasuglio d’armatura in carta pesta, una copia delle poesie di Emily Dickinson dalle pagine ondulate recante – sulla prima pagina: “Restituito. da E”, un portagioie al cui interno – attaccato con del nastro isolante – vi è una strisciolina di carta.
Non so nulla di queste storie, eppure la strisciolina dice: “Ore 15:25. Troverò mai, Enrico IV?”