Intervista alla chef Piera Giuffrida a cura di Roberto Zito, studente della Scuola Biennale di Scrittura e Storytelling di Viagrande Studios, per il progetto A tu per tu, con gli eroi di tutti i giorni
«Volevo dimostrare che si può arrivare in alto ma con metodi diversi». E Piera Giuffrida, dopo tanti anni di gavetta per diventare una chef in un settore durissimo, difficile, troppe volte visto come esclusivamente maschile, in alto ci è arrivata, eccome. Anche chi non ci è mai stato conosce “Cascia”, il locale di Catania all’angolo tra via Garibaldi e piazza Duomo, che è diventato in poco tempo un brand riconosciuto, tanto da conquistare il Certificato di Eccellenza Italiana 2020/2021. Un brand che si è ormai fuso con la sua stessa creatrice che, nel corso della nostra intervista tenutasi a Viagrande Studios, afferma infatti: «Ormai non mi conoscono più come Piera, mi dicono: “Ma tu sei Cascia! Complimenti, bravissima!”».
Con la chef Piera abbiamo affrontato non solo gli aspetti che riguardano il suo ristorante, ma anche le curiosità che riguardano il mondo degli chef, tra gioie e dolori, incidenti in cucina e cozzate, ossia gli scappellotti in testa quando si sbaglia qualcosa. Abbiamo raccolto anche molti aneddoti relativi alla carriera di Piera, talmente in ascesa da diventare la responsabile del catering per i Black Eyed Peas, in occasione dell’unica tappa italiana del loro ultimo tour internazionale, il concerto di fine luglio 2022 a Catania.
Ma raccontiamo con ordine partendo da un’annosa questione: lo stereotipo dello chef visto come un ruolo pertinente soprattutto agli uomini.
C’è sempre stata nel campo della ristorazione una predominanza delle figure maschili. Tu come vedi questa situazione? Ancora in molti contesti questo stereotipo è abbastanza attivo?
«Noi di Cascia impieghiamo solo personale femminile, ed è il nostro punto di forza, un’impronta che abbiamo voluto dare al locale per sfatare il mito della figura maschile nella ristorazione. Questo mito nasceva dal fatto che in passato la donna era associata solo alla cura della casa, dei figli, delle pulizie, quando invece non è più così. Anche le donne possono gestire un locale, dare un’impronta della femminilità all’interno della ristorazione e svolgere lavori pesanti. Sempre più chef e direttori di hotel sono donne, lavorando dieci, dodici ore al giorno. Ma nel nostro locale il personale lavora sei ore al giorno, niente schiavismo».
Ecco, a livello di regolarità del lavoro, sta cambiando la situazione nel mondo della ristorazione? Rispetto al passato c’è più rigore nel trattare i lavoratori e non sfruttarli?
«Quando ero più piccola lavoravo per una media di diciotto ore al giorno in cucina, in tre posti diversi. Finché ero un’apprendista crescevo a “cozzate”, come Cannavacciuolo. Teglie bollenti, incidenti con l’olio per friggere… era la gavetta di una volta. Oggi non è più così. Mi dicevo sempre che se un giorno avessi aperto il mio ristorante mai nessuno sarebbe stato trattato come sono stata trattata io. Ancora ci sono posti dove si lavora per tante ore con una paga limitata, ma in generale la situazione non è più come una volta, c’è molta più comprensione, molto più rigore».
Vorrei chiederti in merito agli errori che capitano in cucina, perché oggi vengono amplificati e ingigantiti da commenti e recensioni online. Quanto è diventato difficile questo lavoro ora che dilagano le recensioni su Tripadvisor e i programmi come Masterchef?
«Oggi fare il ristoratore è diventato come camminare in un campo minato, perché se il servizio non va bene fanno la recensione negativa, ma se è buono la recensione positiva spesso non la fanno. Per fortuna noi abbiamo quattro stelle e mezzo, la gente al locale ci guarda incantati mentre cuciniamo (la cucina del locale è a vista, ndr) perché siamo una famiglia e quando c’è armonia il cliente lo capisce. Questo per noi è il più grande appagamento».
Devo dirlo, sono uno di quelli che è andato nel vostro locale per osservarvi in cucina. E quando alla fine del pranzo ho chiesto di parlare con la chef, mi è stato risposto: “Ma noi siamo tutte chef”. Sono rimasto un po’ spiazzato ma dovevo presagirlo, si vede che siete una squadra. Come mai non c’è più una gerarchia in cucina?
«La gerarchia c’è, è la mia impostazione di lavoro che è diversa. Sempre grazie a quelle famose cozzate che ho ricevuto da piccola ho acquisito una visione generale per far defluire al meglio un servizio. Chef si diventa con l’essere organizzati. È importante avere un carattere calmo, trasmettere pace e serenità. Mai urlare perché la gente in sala ci sente, invece tutti devono fare tutto nella maniera più calma, pulita e fluida possibile. È un metodo appreso negli anni, all’inizio ero una biglia impazzita».
A proposito, col senno di poi sproneresti un giovane a fare questo lavoro?
«Per come ho impostato io la situazione, sì. Pensa che il mio staff si vanta di lavorare da Cascia, perché siamo tutte serene anche quando prenotano un tavolo da venti persone all’ultimo momento».
Il nome del locale è “Cascia” o “Cascialab”? E come nasce questo nome?
«Il nome nasce dal concetto di “cibo fresco”, per trasmettere alla gente l’idea degli ingredienti freschi con cui cuciniamo. La verdura dove la metti? Nella cascia (“cassa” in siciliano, ndr). Il pesce dove arriva? Nella cascia. La frutta? Nella cascia. Poi mi sono chiesta come far capire alla gente che è tutto fatto in casa? Il termine “laboratorio” non mi piaceva molto quindi ho unito le due parole crenado così “Cascialab”».
Si diventa chef o si nasce con un dono, un talento? Ad esempio, io sono figlio di uno chef ma non so fare nemmeno l’uovo fritto, sono negato.
«Le chef che lavorano con me facevano lavori totalmente diversi eppure le ho assunte perché hanno la passione profonda. Quando sono a casa, libere, mi mandano messaggi con ricette da fare. Questo vale più di un mestiere, perché non importa quello che sei stato ma quello che vuoi diventare. Per questo le ho volute prepotentemente, voglio persone che cucinino col cuore, con la passione».
Cascia ha raggiunto successi incredibili, ma dobbiamo parlare anche delle difficoltà che avete affrontato, specialmente quando si tratta di gestire un locale in una città come Catania, piena di problematiche. Mi riferisco ad esempio alla vicenda dell’alluvione avvenuta nell’ottobre del 2021.
«Non abbiamo aiuti dall’amministrazione, e lo Stato ci ha seppellito di tasse. Siamo affranti per le spese dei consumi e della luce. In centro storico non ci sono parcheggi comodi né sicurezza da atti di delinquenza. I tombini non vengino puliti con regolarità. Quel 26 ottobre 2021 (giorno della catastrofica alluvione nella città di Catania, ndr) ero l’unica persona che lottava con la scopa per ripulire dall’immondizia della Pescheria (caratteristico mercato cittadino del pesce, ndr) la sola grata all’inizio della via Garibaldi. Pensavo di averla scampata quando ha smesso di piovere, ma poi la furia dell’acqua che scendeva dalla via Etnea ha invaso il resto delle strade.
Chef Piera racconta il giorno dell’alluvione del 26 ottobre 2021
L’acqua aveva raggiunto un metro e cinquanta di altezza, è entrata nel locale facendo crollare una cella frigorifera. Il bancone frigo che mi è caduto addosso. Per salvarci abbiamo camminato una dietro l’altra, mano nella mano, con molta attenzione, perché se fossimo cadute nella vicina Fontana dell’Amenano saremmo state trascinate dalla corrente. Considera che un pezzo della nostra veranda è stato ritrovato nei pressi della spiaggia della Playa. Ho dovuto rifare da zero il locale, la cucina e le celle nuove, senza alcun indennizzo, né risarcimento. Lo Stato ci ha abbandonato a noi stessi».
Chef Piera ha piani futuri per ampliare Cascia?
«La mia idea è quella di creare un franchising mantenendo però il locale di Catania come punto d’origine. Il mio sogno sarebbe aprire a Londra ma le condizioni non sono semplici. A Catania per fortuna siamo amatissimi ma vorrei abbattere i confini per valorizzare sempre più la nostra cucina».
Adesso è il momento dell’aneddoto “Black Eyed Peas”. Voi avete curato il catering di alcuni artisti dello scorso Wave Summer Music a Catania?
«Ancora stento a crederci. Ho 36 anni, sono cresciuta con i “Black Eyed Peas” e le loro canzoni. L’unica tappa prevista in Italia era a Catania. Abbiamo partecipato a una sorta di contest per curare il catering dell’evento. Poi ho ricevuto una telefonata sei giorni prima del concerto, mi chiedevano se avevo da fare il 26 luglio perché ero stata scelta. Solo sei giorni prima! Sei giorni per preparare breakfast, pranzo, pasto prima e dopo lo show. Abbiamo sviluppato cinquantatré pagine di menù, non ho dormito per giorni.
Alla fine Will.i.am è venuto a dirci: “This is the best catering in the world!”. Io sono rimasta a fissarlo, non riuscivo nemmeno a dirgli grazie, ho iniziato a piangere. A fine serata l’organizzazione ci ha chiesto di curare il catering anche per Caparezza e Blanco. Ci hanno messo a disposizione un padiglione installato alla Villa Bellini dove abbiamo dovuto trasferire tutto il locale per cucinare a pranzo e a cena. Poi è arrivata anche una mail di ringraziamenti dallo staff dei Black Eyed Peas, piena di complimenti per tutte noi».
Ma insomma, chiediamo curiosissimi a chef Piera, cosa c’era in quel catering?
«Tutto! Tartare di manzo agli agrumi di Sicilia, confetture di tutti i tipi e tutte fatte da noi, le “caramelle” ossia la pasta ripiena con scamorza, radicchio e ragù al cinghiale nero dei Nebrodi, poi carpaccio di vitello, parmigiana di melanzane… Abbiamo anche realizzato le lavagnette per indicare i nomi dei piatti e gli ingredienti, in inglese. È stata una… si può dire figata? È stata una figata totale!».
Parliamo di creazioni, quindi. Il piatto che ti piace di più cucinare? E il tuo piatto “Ratatouille”, cioè il piatto che ti riporta all’infanzia?
«Quello che mi riporta all’infanzia è il piatto più semplice che ho creato: la parmigiana, ma a modo nostro. Noi non la facciamo con l’uovo e col prosciutto, ma con estratto di datterino di Pachino, melanzana fritta e grana dei Nebrodi, nient’altro. La serviamo calda in un pentolino monoporzione. Quando vedo una parmigiana servita fredda e tagliata a quadretti mi arrabbio come una bestia. Per me deve essere tutto cucinato sul momento, anche la nostra pasta fresca.» sorride chef Piera «Quando arriva l’ordine del piatto preparo la pasta, la metto nel bollitore e dico ad Alexa di avvisarmi quando scolare…»
Toglici una curiosità, dunque, chef Piera: avete Alexa in cucina?!
«Certo, Alexa cucina meglio di noi, è fantastica! “Alexa timer pasta, Alexa timer acqua”… Ogni tanto impazzisce pure lei: una volta le ho detto di ricordami i panini nel forno, dopo cinque minuti mi ha risposto: “Ricordati i bambini nel forno”. Ancora ridiamo per questa cosa. Per noi ormai Alexa è indispensabile in cucina, le diciamo di tutto, di ricordarci di ritirare la carne, di chiamare il fornitore…».
Sorridiamo anche noi alunni della Scuola di Scrittura e Storytelling di Viagrande Studios, poi chef Piera torna a rispondere alla mia domanda precedente:
«Il piatto che mi piace di più cucinare è il raviolo di cernia con ragù di granchio. Ho voluto improntare Cascia su piatti che solitamente non si trovano, per cui ho creato questo ragù con squeeze di agrumi, peperoncino, aglio affumicato e datterino di Pachino. Lo serviamo insieme al pane, la gente all’inizio ci chiede che non occorre ma alla fine fa sempre la “scarpetta”».
Di recente la serie televisiva “The bear” ha parlato del senso di stress che si vive nel mondo della ristorazione, insieme ai rischi fisici che corrono i cuochi, ad esempio tagli e bruciature. Ci puoi parlare di questo aspetto che spesso non viene affrontato? Perché tutti guardano le creazioni ma non pensano ai pericoli.
«Molti si fermano solo all’apparenza, ma lo chef è uno dei lavori più rischiosi. Ad esempio, due mesi fa è esploso un calamaro mentre lo friggevo, ferendomi in viso. Poi c’è il pericolo dei coltelli, delle ustioni, degli sbalzi di temperatura, della folata del forno quando lo apri… È un aspetto poco considerato, o meglio, percepito come normale, come per i vigili del fuoco. Anch’io ho le mie cicatrici “di guerra”, della quotidianità, della routine, della vita da chef. Corriamo tanti rischi per far mangiare bene gli altri, ma noi spesso mangiamo a terra, nell’antibagno, in cortile, in piedi. Non tutti hanno la sensibilità di capirlo, ma la ristorazione è anche questa».
Una collega della Scuola di Scrittura e Storytelling confessa alla chef Piera di essere molto appassionata di cucina, soprattutto in ambito pasticceria, eppure negli anni non ha mai trovato un corso davvero formativo.
A questo punto chiediamo a chef Piera Giuffrida se esiste un modo per formarsi in modo concreto o è tutta una questione di gavetta?
«Strano ma vero: non c’è una vera e propria formazione a priori per diventare cuoco. Io mi sono diplomata all’Istituto Alberghiero ma non è lì che sono cresciuta professionalmente. Dovrebbe esistere una formazione che insegna davvero, dove i corsisti imparino davvero a cucinare, e non soltanto a lavare la verdura o a tagliare il pane. Essere chef è un mestiere che fai tuo soltanto praticandolo. La domanda di formazione cresce per questo in futuro vorrei fare corsi di cucina nel locale. Spero che il progetto possa decollare».
Senti, sia come chef Piera che come Piera, di aver lasciato qualcosa nel tuo territorio, nelle tue colleghe, nelle persone che vengono a mangiare da Cascia?
«Sì, quando vedo negli occhi dei commensali la felicità. È un peccato non poter vedere i volti di coloro che mangiano nel dehors perché dalla cucina non riesco, invece quando i clienti vengono serviti in sala posso guardarli mentre mangiano. Quando li vedo, vedo tutta la felicità davanti ai miei piatti… e oggi strappare un sorriso non è facile. Questa è una firma, per me portare felicità è una firma. Si deve portare felicità, abbiamo troppo poco tempo in questa vita quindi dobbiamo portare felicità con le nostre doti. Io so cucinare, il mio modo è questo».
A livello estetico, se si dispone di una cucina a vista, quanto è importante mantenere un certo decoro, una certa visibilità?
«Il bello non è esteriorità ma è quello che hai dentro. Puoi essere in qualsiasi modo, ma quello che hai dentro vale più di qualsiasi biglietto da visita. Da noi lavora una chef che è alta un metro e cinquanta, ma non sai quanto è brava, quanta passione, quanto amore ci mette. È un vulcano, e lei dice sempre che le ho fatto esplodere la voglia e la passione che teneva dentro, mentre altri la mettevano da parte. Nessuno ti può privare di una cosa che a te piace, anche se porti i capelli viola o di un altro colore, l’importante è chi sei dentro e cosa vuoi diventare».
Piera Giuffrida: una donna che ha realizzato il suo sogno
Pensavamo di concludere l’intervista con un senso di fame incredibile, invece la chiacchierata fiume con la chef Piera Giuffrida ci ha lasciati sazi. Non tanto di cibo ma di gioia e di entusiasmo, nell’ascoltare i ricordi di una chef che ha realizzato un sogno, non nascondendoci la sofferenza dietro il raggiungimento di quel traguardo, ma dandoci anche un senso di speranza per i sogni che ognuno di noi custodisce. E che dobbiamo in tutti i modi raggiungere, schivando tutte le “cozzate” che le durezze della vita ci infliggono. Perché l’unica cosa che deve alimentarci è la passione, e la felicità che si prova quando quella passione esplode, come i sapori di una semplice e gustosa parmigiana.
Intervista a cura di Roberto Zito, studente della Scuola Biennale di Scrittura e Storytelling di Viagrande Studios