Oggi con it.Catania vi raccontiamo la storia di una donna dai capelli rossi e lo sguardo forte, dallo spirito coraggioso e dalla voglia, innata, di dire sempre la verità: la storia della giornalista catanese Maria Grazia Cutuli.
Una fine che, in realtà, è un inizio…
Racconteremo questa affascinante storia, partendo dall’epilogo finale. E’ il 19 novembre 2001, poco più di due mesi dopo l’attacco alle Torri Gemelle. Il mondo è in subbuglio, gli Americani vogliono vendetta nelle terre di Bin Laden. Sono le 5:30 del mattino in Afghanistan. Le truppe americane e l’Alleanza del nord sono in marcia, da settimane, per la riconquista delle terre afghane. Uniti, contro un nemico comune: Osama Bin Laden e i suoi Talebani. Un convoglio di giornalisti internazionali è a bordo di alcuni veicoli, obiettivo: raggiungere la capitale, Kabul, da poco liberata.
Il convoglio si spezza quasi subito e la Toyota Corolla insieme ad un’altra auto, che aprivano la marcia silenziosa, rimangono isolate e distaccate dal resto della fila. A bordo della Toyota capofila c’è la nostra inviata del Corriere, Maria Grazia Cutuli. Insieme a lei, un autista afghano, un giornalista del Mundo, Julio Fuentes, e un traduttore. Nella seconda auto viaggiano un cameraman australiano, Harry Burton, un fotografo afghano, Azizullah Haidari, l’autista e un altro interprete.
Questa è la fine di una storia; anzi questo è l’inizio di una storia che parla di molte cose insieme. Parla di vita, di passioni, di giornalismo, parla anche di donne e di guerra, di morte e di speranza. Perché quando si raccontano i fatti, le verità sono molteplici e bisogna esser precisi nel sottolinearli tutti, proprio come ha sempre fatto la giornalista catanese fin dagli inizi della sua carriera.
Chi è Maria Grazia Cutuli
Maria Grazia Cutuli è nata a Catania nel 1962, ha studiato, qui nella nostra città, Filosofia. Poi Maria Grazia forse ha capito che tra la Filosofia ed il giornalismo d’inchiesta non c’è molta differenza. Si tratta sempre di osservare la vita umana, nel bene e nel male. All’epoca della sua morte aveva da poco compiuto 39 anni. Aveva molti talenti Maria Grazia Cutuli e, fra tutti, sicuramente l’animo del giornalista da reportage ed è così che ha incantato lettori e colleghi, nei suoi quindici anni di professione. Inizia nel 1986, infatti, il suo racconto del mondo in primo piano. Prima, scrivendo per il quotidiano della città, La Sicilia e, parallelamente, conducendo l’edizione serale del telegiornale di Telecolor International.
Poi, si trasferisce a Milano. Qui inizia a lavorare per giornali nazionali di una certa importanza, come Marie Claire, Centocose e Epoca. Nel 1995 inizia la sua corrispondenza per il Corriere della Sera. Maria Grazia Cutuli ha un excursus professionale e di vita, che, a ragion veduta, deve essere ricordato. Ricordato e studiato, perché lei non racconta con freddezza ciò che vede, ma, da brava filosofa qual è, racconta la realtà in tutte le sue sfaccettature. Osservandola prima nei suoi dettagli, e poi nell’insieme. Una giornalista catanese e una donna. Ed è proprio il suo essere donna a farla emergere senza paura. Perché Maria Grazia Cutuli, diciamolo chiaramente, non andava d’accordo con la paura.
Una testimone della verità, anche quella più crudele
Non era una fredda cronista di guerre, desolazioni e genocidi, ma la catanese era un’esperta osservatrice, sia delle società che incontrava che delle motivazioni che spingevano le persone ad agire in un determinato modo. Non traeva conclusioni, ma aspettava che fossero i lettori a trarre le loro. Lei era anche attenta osservatrice della condizione femminile, essendo donna e riconoscendo il peso che questo significava. Ella scrive in una delle sue corrispondenze: «Nascoste, invisibili, assenti: non si vedono donne a Jalalabad (…) Non ci sono donne tra chi fa la guerra, gestisce il potere, decide il futuro. In un’intera mattinata, appaiono tra le botteghe del suk solamente tre sagome avvolte dal burqa, dal passo silenzioso e discreto, coperte come sempre dietro la cortina di un poliestere».
Una catanese che ha raccontato anche la vita di chi non ha più nulla o ha ben poco per cui lottare, ad esempio nei suoi reportage narrati dalla Cambogia, 1992, da Sarajevo, 1995, dall’Albania, 1997, dall’Iraq, 1998, da Timor Est, 1999. E’ forse vedendo tutta questa sofferenza che decide di non poter esser più soltanto una giornalista. Così si trasferisce a New York, dove frequenta un corso di peacekeeping delle Nazioni Unite. Parte, subito dopo, come volontaria in Ruanda, con l’Alto Commissariato per i diritti umani. Ed è qui che scrive: << Al processo dei «boia» accusati per genocidio(…) I loro volti impassibili, le loro fisionomie umiliate in casacche rosa confetto, il colore scelto in Ruanda per i detenuti, forse non passeranno ai posteri come quelle dei criminali nazisti processati a Norimberga dopo la Seconda Guerra. (…) Ma nonostante la scarsa attenzione dei media, i processi per genocidio in Ruanda rappresentano un avvenimento «epocale». Quasi 100 mila persone si trovano nelle prigioni ruandesi per «crimine contro l’ umanità». Fra di loro ex politici, ex ufficiali, giornalisti, uomini d’ affari, contadini. Ma anche donne, ecclesiastici, bambini…>>
Maria Grazia Cutuli, l’agguato del 19 novembre 2001
Siamo a tre ore di macchina da Kabul, le due macchine hanno percorso chilometri di deserto. Finché, all’improvviso, non sono costrette a fermarsi all’altezza di un ponticello in pietra vicino Surobi. Davanti a loro ci sono otto uomini armati. I quattro giornalisti sono costretti a scendere e a dirigersi dietro una montagna. Gli uomini armati sanno come andrà a finire, anche Maria Grazia Cutuli e i suoi compagni di viaggio lo sanno. In quelle ultime settimane in Afghanistan, hanno documentato più e più volte cose del genere. Non sappiamo se fra di loro si sono detti qualcosa, se hanno cercato di negoziare con i loro boia la salvezza.
Forse Maria Grazia Cutuli ha continuato a sfoggiare il suo sguardo sicuro, con la forza che solo una donna a volte riesce ad avere. Ed è per questo che presto cade a terra, colpita da una pietra lanciata da un attentatore. Poi degli spari di kalashnikov e più nulla. Uno degli autisti sopravvisuti all’agguato afferma che il tutto è avvenuto in meno di cinque minuti. Cinque minuti per distruggere la vita di quattro tesimoni di verità. Nessuna organizzazione rivendicherà mai l’attentato.
Alcuni degli assassini, considerati i responsabili della morte della giornalista, verrano catturati e condannati. Uno di loro subirà la pena capitale, gli altri due, Mamur e Zar Jan, nel 2017 – ben sedici anni dopo la morte di Maria Grazia- sono stati condannati a scontare rispettivamente 16 e 18 anni di carecre in patria.
Le utlime parole di verità di Maria Grazia
L’ultimo pezzo che Maria Grazia Cutuli scrive per il Corriere viene pubblicato proprio il giorno della sua morte, il 19 novembre 2001. Un deposito di gas nervino viene scoperto a Farm Hada, lei, ovviamente, è lì al momento della scoperta: <<L’abbiamo scoperta a Farm Hada, Un posto sperduto in mezzo a una landa rocciosa, a un’ora di macchina dalla città. Ci arriviamo percorrendo una pista di sabbia che si addentra per chilometri, in una vallata bruciata dal sole. Un’area inaccessibile fino a qualche giorno fa.>>
E ancora, il suo sguardo va oltre: <<Poco lontano dalla zona in cui abbiamo trovato le fiale, sorgono le ville di Younis Khalis e dei suoi comandanti. (…) Si vedono bambini giocare davanti ai portoni e qualche camion passare lungo la strada. (…) Ci fermiamo a Dar Olum, l’ex «madrassa» dove venivano selezionati i giovani combattenti, ragazzi preferibilmente orfani dai 15 ai 18 anni destinati agli attacchi kamikaze.>>
Le donne e il giornalismo
Maria Grazia Cutuli, non è l’unica donna del giornalismo d’inchiesta che l’Italia ricorda con orgoglio. Il suo nome è incastrato nella memoria così come quello di Ilaria Alpi, Tiziana Ferrario, Lilli Gruber, Giovanna Botteri e Monica Maggioni. E ancora, Oriana Fallaci, con i suoi reportage della guerra del Vietnam e Lucia Annunziata, in prima linea durante la guerra in Salvador. Ce ne sono tante altre di firme al femminile che hanno lasciato un segno, perché hanno non solo testimoniato la verità proprio mentre avveniva– come un giornalista d’assalto dovrebbe fare- ma soprattutto perché hanno poggiato una pietra ulteriore per le donne che sono arrivate dopo. E’ proprio così, non è retorica, nè scontato femminismo: Maria Grazia Cutuli, insieme a tutte le altre, ha permesso chissà quanti passi in avanti per le giornaliste dopo di lei.
Una storia di speranza quella della giornalista catanese
All’inizio, però, vi avevamo detto che questa storia parlava anche di speranza.
Nel nome di questa donna di verità sono nate la Fondazione Cutuli Onlus, con sede a Catania e presieduta dal fratello Mario. Inoltre, numerosi premi, dedicati al giornalismo, portano il nome di Maria Grazia, tra i quali il Premio Internazionale di Giornalismo, organizzato dalla Fondazione in collaborazione con il Comune di Santa Venerina e le Università siciliane di Catania. Palermo, Messina ed Enna. Un premio istituito dalla Camera dei Deputati, per ricordare il suo impegno, e quello della collega e amica, Ilaria Alpi.
Grazie a lei sono state create due scuole in Afghanistan, a Maimanà e Herat. Questo perchè la sua speranza è andata oltre i confini catanesi e italiani, raggiungendo i posti che aveva raccontato. Perché la cosa fantastica della vita, per Maria Grazia Cutuli, era la vita stessa, in tutte le sue forme.
“Durante il viaggio l’atmosfera è rilassata… Maria fuma e mangia pistacchi. Ci fermiamo solo una volta: lei fotografa i cammelli…”
Ashuqullah, l’autista del veicolo su cui viaggiava Maria Grazia Cutuli